Sabino Pignataro

domenica 23 novembre 2008

Vorrei morire come una creatura.

Giulio Mozzi ha proposto nelle settimane scorse ai lettori di Vibrisse, e a chiunque vorrà liberamente farlo, di scrivere il proprio testamento biologico e di mandarglielo (qui). Ha dato l'esempio scrivendo e pubblicando il suo.

"Ho quarantott'anni e, sinceramente, spero di arrivare alla morte in condizioni decenti. Il dizionario di Tullio De Mauro, alla voce "decenza", dice: "Convenienza, decoro, pudore rispetto alle esigenze etiche della collettività". Quando penso alla decenza, invece, io penso alle "esigenze etiche" mie proprie. Quali siano queste mie "esigenze etiche", io solo lo so: e non lo so ora per allora (un "allora" futuro), ma lo so in ciascun momento per quel momento. E' possibile, peraltro, che io mi possa trovare, in un certo momento della mia vita, nell'incapacità di stabilire quali siano le mie "esigenze etiche" in quel preciso momento. Perciò - è questo il testamento - dico e dichiaro, qui e pubblicamente, che desidero che in quel certo momento possano decidere, abbiano il diritto e il dovere di decidere, in mio nome, quali siano le mie "esigenze etiche", le persone che mi amano.
Sospetto che "le persone che mi amano" non sia una definizione precisa - dal punto di vista giuridico. Credo che questa difficoltà sia inevitabile. Credo che la legge possa dire solo cose del tipo: che decida in mio nome la persona a me unita in matrimonio (o in altro tipo di unione), il parente più stretto, eccetera. Non mi dispiacerebbe però se, piuttosto che la legge, la consuetudine o la giurisprudenza conducessero a individuare la persona, o le persone, che possa o possano decidere, in quel certo momento, quali siano le mie "esigenze etiche". Peraltro, sarei portato a pensare che il diritto e il dovere di decidere quali siano le mie "esigenze etiche" spetti semplicemente a chi scelga di prendersi la responsabilità di decidere quali siano le mie "esigenze etiche". Credo che il fatto stesso che una persona sia disponibile ad addossarsi tale responsabilità (con tutti i rischi legali, sociali, morali eccetera che ciò comporta) basti a identificare questa persona come persona che mi ama.
Non sono sicuro di tutto questo, e non sono sicuro di averlo detto bene. Prendete le parole del secondo capoverso come un tentativo provvisorio. Se qualcuno vuole e può aiutarmi a formulare con più giustizia e più precisione, lo ringrazio.
Ho detto prima che quando penso alla "decenza" penso alle "esigenze etiche" mie proprie. Difatto, per ora, è così. Ho il sospetto, tuttavia, che se penso solo alle "esigenze etiche" mie proprie forse penso solo a metà. Non sono solo al mondo. Tutta la mia vita è intrecciata a tante altre vite. Mi domando: le "esigenze etiche" mie, e quelle delle persone alla cui vita è intrecciata la mia vita, in che maniera si intrecciano? In che modo diventano "esigenze etiche" condivise?
La parola "esigenze", poi, mi convince poco: come se l'etica fosse un fatto di esigenze ("esigenza": "ciò che si richiede a tutela di un diritto o di un interesse o per propria convenienza" - sempre il De Mauro), e non invece (o almeno: anche; e piuttosto: soprattutto) un fatto di desideri ("desiderio": "intenso moto dell’animo che spinge a voler ottenere o realizzare qualcosa che si considera un bene").Mi piacerebbe, ecco, morire in modo da ottenere o realizzare un bene. E se in quel momento io fossi incapace di agire, decidere o parlare, mi piacerebbe se, nell'accompagnarmi alla morte, le persone che mi amano fossero guidate dal desiderio di ottenere o realizzare un bene.
(E se spettasse a me, di prendermi la responsabilità di decidere sulla decenza del morire - ossia sul desiderio etico nel momento del morire - di una persona che amo? E se spettasse a voi?).
Il mio testamento è questo: credo che chiunque deciderà per me, deciderà per amore; e sarà responsabile della sua decisione. ("Decidere per amore" e "essere responsabili": due modi, mi pare, di dire la stessa cosa).
"

domenica 9 novembre 2008

Il mio Paese

Le anacronistiche risse fra fascisti ed antifascisti per la “riforma” Gelmini, rischiano di coprire il fragoroso crollo finale di Alitalia, o meglio di ciò che ne è rimasto.
Epilogo sconcertante con l’odierna bocciatura del prestito ponte,una fregatura da 300 milioni di euro stanziata per dare fiato all’agonizzante compagnia di bandiera e permettere alla famigerata cordata di “capitani coraggiosi” di farsi avanti e di scaricare sul groppone dei contribuenti i miliardi di debiti allegramente contratti in decenni di gestione aziendale guidata dalla politica e dal sindacato.
Federico Fellini, nel lontano 1978, descriveva in “Prova d’orchestra” uno degli esiti possibili dell’eterna crisi italica. Nella fantasmagorica e spietata disamina del maestro riminese, il marasma della società conduceva diritto verso uno sbocco neo-autoritario che tutto rischiava di travolgere.