Sabino Pignataro

domenica 17 gennaio 2010

I giardini di Marrakech.

Raggiungendo Marrakech in aereo capita di osservare un curioso fenomeno ambientale. Tutto il territorio, soprattutto a est della città, è disseminato di buche. I monticelli di sabbia che segnalano la presenza delle infinite gallerie sono straordinariamente allineati e puntano verso l’Atlante. Si tratta di una delle più studiate e strabilianti invenzioni umane per garantirsi la vita, la mobilità e la libertà, usando ma non depauperando la natura.
La parola chiave è khettara, ma si declina come foggara nelle oasi sahariane, qanât nell’area della grande Persia (oggi Iraq, Iran), falaj nella penisola arabica e infine karîz in Afghanistan. Essa designa una “galleria drenante sotterranea”, vale a dire un sistema idraulico che permette di ottenere un flusso costante di acqua anche a grande distanza dalla presenza di sorgenti, fiumi, falde freatiche. Dobbiamo pensare che Marrakech non esisterebbe nella sua configurazione imperiale e soprattutto non esisterebbero quei giardini rigogliosi che ne hanno divulgato la fama in tutto il mondo fin dall’antichità. Perché si tratta, né più né meno, di un prodigio: sostituire al deserto il giardino, trasformando la povertà in festa.
Viviamo una fase in cui sembra perso il rapporto semplice di conoscenza dell’ambiente: costruiamo sull’alveo dei torrenti, avveleniamo e sprechiamo le nostre fonti di approvvigionamento mentre sviluppiamo al massimo grado le capacità di interpretazione scientifica dei fenomeni. Paghiamo forse un prezzo alto nella scomparsa del mondo rurale, nella perdita di una cultura e di una sensibilità legati ai fenomeni naturali. Quello che era un modello di relazione sociale ora salta a causa delle leggi implacabili dello sviluppo.

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