Sabino Pignataro

domenica 31 marzo 2013

La nuova via della seta.


La Via della Seta ha rappresentato la rete dell'economia del mondo che ha fatto grande Roma, la Cina, la Persia, l'Impero mongolo, Venezia. Poi il mondo è cambiato, l’Eurasia progressivamente ha perso la centralità e vi fu l’ascesa dell’Atlantico settentrionale; quindi il canale fu ostruito. Ma oggi diversi Paesi dell'Eurasia spingono per riaprirla e, tra questi, anche la Cina, che sta tornando a essere la potenza globale di un tempo. "Una 'Via della seta' multidimensionale, che consiste di strade, ferrovie, voli aerei, oleodotti e gasdotti, sta prendendo forma".Per Pechino l'apertura della via occidentale è strategicamente fondamentale. In primo luogo perché permette di evitare che i suoi rifornimenti debbano passare prevalentemente dal mare, con i rischi connessi alle vie marittime nel sudest asiatico, dove i "competitor" regionali e globali della nuova potenza emergente potrebbero riuscire, in caso di conflitto, a creare blocchi. In secondo luogo perché accrescerebbero l'influenza di Pechino in Asia centrale, una regione ricca di risorse energetiche. In terzo luogo perché renderebbero più diretti, costanti e meno costosi i commerci con l'Europa. Accanto a questo, la speranza dei sostenitori del progetto è quello che lo sviluppo porti anche stabilità regione. L'instabilità s'è manifestata negli ultimi decenni in particolare in Afghanistan e Pakistan, ma ha anche pericolosi potenziali in diversi Paesi dell'Asia centrale. La stessa Cina, d'altronde, è preoccupata della situazione in Xinjiang. Una stabilità necessaria per una Cina che – col Giappone e gli Stati Uniti che fanno da blocco nel Pacifico – ha necessità di avere aperto il suo occidente se non vuole rischiare l'isolamento. Agganciare l'Asia centrale a un flusso commerciale e di idee che dall'Europa alla Cina e dall'Asia centrale ex sovietica verso sud, all'India (per esempio, col gasdotto Tapi Turkmenistan-Afghanistan-Pakistan-India), potrebbe anche voler dire coinvolgere anche gli altri attori regionali, come la Russia, l’Iran e la Turchia. A una riunione a fine 2011 dell'Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (SCO), il primo ministro russo (poi ritornato alla presidenza) Vladimir Putin - ricorda il sito internet Eurasianet.org - ha proposto d'investire 500 milioni di dollari nel progetto CASA-1000, che dovrebbe portare elettricità dall'India al Pakistan. D'altronde Mosca promuove un'Unione euroasiatica e ha sostanzialmente costituito un mercato unico con Bielorussia e Kazakistan. Oltre a godere indirettamente di un ritorno alla stabilità di una regione per lei fondamentale, Mosca si troverebbe, insomma, in pieno lungo la Nuova Via della Seta e potrebbe cogliere importanti opportunità economiche. Il Kazakistan, dal canto suo, è da sempre un grande promotore della riapertura della Via della Seta e, in particolare, sta investendo sul suo tratto del corridoio autostradale Europa-Cina, che sarà lungo oltre 8.400 chilometri (2.700 dei quali in Kazakistan, che costeranno in tutto 6,7 miliardi di dollari). Le istituzioni finanziarie multilaterali ci stanno mettendo risorse, dalla Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo alla Banca di sviluppo asiatico (Adb, con forte presenza giapponese e cinese), passando per la Banca di sviluppo islamico. Secondo l'Adb, se si aprisse il Corridoio Europa-Cina, entro il 2020 il Pil kazako crescerebbe del 68 per cento e quello degli altri paesi della regione del 43 per cento. Astana, peraltro, si sta mettendo avanti con il lavoro. A cavallo del confine con la Cina è in via di costruzione - tra Khorgos e il Xinjiang - una zona di libero scambio frontaliera con la Cina. L'idea di Astana - scrive Eurasianet - è quella di imitare il percorso della  cosiddetta "Tigri asiatiche" per diventare il "Leopardo delle nevi dell'Asia centrale". In questo quadro vuol poi rientrare anche un altro importante attore della geopolitica regionale: la Turchia. Oggi Turchia e Kazakistan devono avere un ruolo importante e assumersi una responsabilità storica nel promuovere i nuovi corridoi per il trasporto, le comunicazioni e l'energia, in altre parole, creare una nuova Via della Seta che unisca Europa e Asia. Il continente eurasiatico continua ad avere un ruolo storico strategico, che è stato rafforzato grazie alle ricche risorse dell'Eurasia. Importante è il completamento della ferrovia Baku-Tbilisis-Kars, un passo cruciale per far rivivere la storica Via della Seta". In tutto ciò dobbiamo ricordare che il Presidente dell’Iran e il Presidente del Pakistan hanno inaugurato la fase finale del gasdotto tra i due Paesi. Già completato nel tratto iraniano, il gasdotto – che corre su un totale di circa 1.800 chilometri – dovrebbe entrare in funzione il prossimo anno. Da costruire mancano i quasi 800 chilometri che uniscono la frontiera alla località pakistana di Nawabshah. Il progetto del "Peace pipeline" era stato avanzato da alcuni esperti negli anni 90, tuttavia solo dopo 10 anni di discussioni era finalmente stato posto all'attenzione dei governi ma il processo che ne seguì si dimostrò piuttosto tortuoso. A causa delle pressioni degli Usa, l'atteggiamento indiano era sempre stato passivo e alla fine l'India aveva annunciato in modo ufficioso di volersi ritirare dal progetto. Tuttavia l'Iran e il Pakistan non hanno rinunciato e l'atteggiamento del primo in particolare è sempre stato molto positivo. Forse l’India potrà tornare in gioco un domani. Nel 2007 l'Iran ha iniziato la costruzione del gasdotto sul proprio territorio e, secondo quanto riportato dai media locali, le spese di costruzione sono ammontate a circa 2 miliardi di dollari. Per aiutare il Pakistan ad accelerare la costruzione del gasdotto, l'Iran gli ha concesso un prestito di 500 milioni di dollari. Gli accordi di cooperazione del progetto sono stati firmati alla fine del mese scorso in occasione della visita di Zardari in Iran, durante la quale i due paesi hanno concordato di concludere la costruzione del gasdotto nel 2015. Considerato dal Pakistan come un mezzo per fare fronte alla cronica carenza di energia, è inviso agli Stati Uniti a causa del programma nucleare iraniano. A più riprese Washington ha cercato di dissuadere Islamabad, paventando anche possibili sanzioni. Ma a quanto pare gli interessi dei vari attori regionali, principalmente Cina, Russia, India, Pakistan, paesi dell’Asia centrale, Iran, Turchia e senza dimenticare i benefici per l’area mediterranea, vanno oltre le minacce nordamericane. Un nuovo mondo sta nascendo, il baricentro delle dinamiche globali si sta muovendo, dopo qualche secolo, dall’Occidente all’Asia (Eurasia).

sabato 30 marzo 2013

Fuochi di Buttafuoco.


Ogni traccia è un tizzone rovente lanciato contro il conformismo negli anni del pensiero liquido, semplificato e striminzito come un tweet. L’omologazione è quella dei benpensanti, dei politicamente corretti, degli occidentalisti, degli indifferenti, dei nostalgici di un passato che non torna. Per sfuggire a questo gioco di incasellamento per mezzo di categorie senescenti, l’unico antidoto è la ricerca della scintilla di verità oltre il canovaccio della propaganda. E da questo lampo si accendono i “Fuochi” (pp.234, euro 14,50, Vallecchi), l’ultimo libro nel quale Pietrangelo Buttafuoco riannoda i fili di un “originario” itinerario esistenziale e politico. Lo sguardo dello scrittore diventa così pietrificante come quello di una Gorgone quando mette in risalto l’arretratezza della Sicilia, dove “l’unica cosa che si può fare è la villeggiatura”, perché l’ambizione di avere spiagge pulite o aeroporti moderni si scontra con l’insensatezza fatalista che diventa mito incapacitante.

Buttafuoco si addentra nella propria terra senza indulgenza. Ricorre alle storie note o poco note. Tratteggia i caratteri di politici naturalmente cinematografici, come Mirello Crisafulli e Totò Cuffaro; rende onore all’imprenditore isolano Sandro Monaco e riconosce nel siciliano “la lingua della politica” come codice di dissimulazione, celebrazione, purché tutto avvenga nel “metalinguaggio”. Poi ci sono i ritratti di testimoni del nostro tempo, da Jorge Haider a Silvio Berlusconi, fino a Mario Vattani, già console italiano a Osaka, profondo conoscitore della paideia dei giapponesi, che non rinuncia alle note ribelli con i Sottofasciasemplice, gruppo musicale che ha rivoluzionato la scena del rock identitario. Paolo Conte diventa l’icona dell’Italia “immune dalla parodia”, la Folgore è una brigata di eroi da preservare oltre ogni retorica, alla quale avvicinarsi attraverso la mediazione di Tomaso Staiti di Cuddia o di Sergio Claudio Perroni. Poi c’è Romano Mussolini e il suo “jazz d’antemarcia”, dal passo sognatore, Oriana Fallaci icona della “destra scimmiesca”, il comunismo e i comunisti come dignitoso contravveleno sulla strada della liberaldemocrazia. Due interviste come veri diamanti: a Norberto Bobbio, che confessa la rimozione “vergognosa” del passato in camicia nera da parte di una intera generazione, e a Eugenio Scalfari, sacerdote “del mestiere della giornata che è il giornalismo”. E tra Giorgio Bocca e la santificazione della Lapa brilla Paolo Isotta, sublime critico musicale del “Corriere della Sera”, “ultimo superstite di tremila anni di civiltà europea prima che l’età della tecnica e della democrazia avesse la meglio”. O Urgen Khan, junker baltico, generale dello zar e principe mongolo immortalato da Hugo Pratt in “Corte Sconta detta Arcana”, che nessuna biografia Adelphi riuscirà a rendere politicamente corretto: capo dell’ultima armata bianca, rifiutò di bendarsi gli occhi quando l’Armata Rossa lo fucilò e prima di essere finito dalle pallottole volle inghiottire, per portare con sé, la Croce di San Giorgio. Tra tutti gli affreschi di una galleria che racchiude l’Italia tra Novecento e Anni Zero, risalta infine Nino Buttafuoco, sindaco di Nissoria, deputato a Roma, a Palermo, a Strasburgo, protagonista dell’operazione “Milazzo”, simbolo del fascismo declinato dal sole di Sicilia: l’omaggio allo ‘zu Nino prende le forme del cuntu con il romanzo epico “Le uova del drago”.
I “Fuochi” sono bussola in forma di giornalismo (“sede della nostra vita sociale/ultima delle periferie”) nell’era del banderuolismo a cui fa da contraltare la coerenza di Beppe Niccolai, Giuseppe Berto, Alberto Burri e Gaetano Tumiati, a cui non potranno mai somigliare gli italiani che si rinnoveranno abiurando il proprio passato. “La fedeltà –scrive Buttafuoco – è stata ridotta a macchietta e la lucerna della dignità è stata tutta prosciugata. Fatto fu che Filippo Anfuso, ambasciatore a Berlino, uomo di grande fascino e di rara eleganza, dopo anni di prigionia in Francia, lacero e smagrito tornò nella sua casa di Catania. Si presentò al cancello della sua nobile dimora e, quando il maggiordomo si precipitò per allontanarlo immaginando di avere a che fare con un questuante, nel riconoscerlo, malgrado gli stracci, commosso gli disse: ‘Eccellenza, ma Vossia proprio a favore degli italiani si doveva mettere?’”.
Da che parte per la destra? A questa domanda lo scrittore siciliano non si sottrae e sembra tornare ragazzo, ai comizi di Catania di Giorgio Almirante, o mentre canta all’alba del Gianicolo l’Inno a Roma insieme a Vincino, vignettista del “Foglio” con una brevissima militanza a Palermo nella Giovane Italia, negli anni di Paolo Borsellino e Pierluigi Concutelli. 

Quando la mozione degli affetti cede il passo alla riflessione si arriva al dunque, al bilancio che “il Segretario” non ha mai voluto fare, e all’occasione perduta dalla destra di governo, che in Rai passerà dalla “ricotta di zoccole” alla pratica misera della “sostituzione di figurine”. E allora si viene assaliti dal rammarico, per non aver dato una rotta da seguire a chi voleva entrare “nella viva carne d’Italia”, abbeverandosi alle pagine di “Tabularasa” con gli scritti di Niccolai, Paolo Signorelli e di Antonio Carli, che nel primo editoriale tracciava con nettezza il perimetro di un’antropologia differente: “Chi non comprende il rischio senza interesse, la passione senza vizio, non può capirne le motivazioni”.

sabato 9 marzo 2013

Anemos.



Un viaggio letterario lungo le coste del Mediterraneo alla (ri)scoperta di miti, racconti e leggende per costruire la storia dei venti: ecco il percorso che il ricercatore e grande appassionato di mare Fabio Fiori compie nel suo nuovo saggio "Ánemos. I venti del Mediterraneo", che Mursia ha mandato in libreria, in occasione della festa mondiale del vento promossa dall'Ewea, l'associazione europea dell'energia eolica e dal Gwec, il Global Wind Energy Council e organizzata in Italia da Anev, associazione nazionale energia vento.
A partire dalla personale esperienza di velista e di studioso del mare, Fiori ricorda ­ come in un diario di bordo ­ i propri viaggi, lasciando però che siano i venti i veri protagonisti. Attraverso puntuali e precisi riferimenti alla letteratura, all’etimologia, alla storia, alla musica e alla mitologia si possono così sfogliare i petali che vanno a comporre la celebre rosa dei venti. A ognuno dei venti viene dedicato un capitolo nel quale, assieme a un’accurata analisi dei principali snodi storici e mitologici, riaffiorano rimandi all’arte e alla poesia di autori italiani: a esempio, Eugenio Montale, «il poeta più attento ai venti», oppure Salvatore Quasimodo al quale «il vento entra nel sangue» e, ancora, Umberto Saba che mal sopportava la Bora “chiara” ­ quella che soffia rabbiosa nel cielo sereno ­ e preferiva quella “scura” per la sua «buia violenza».
Navigando nelle pagine delle tradizioni si approda infine all’antica Grecia, dove il vento era ánemos, ovvero quell’inafferrabile e misterioso soffio, quell’unico «immutabile elemento dalla notte dei tempi» che ha permesso all’uomo antico, e permette ancora all’uomo moderno, di viaggiare e di estendere le proprie conoscenze.